Dei debiti e delle pene

08/01/2014

Dei debiti e delle pene. C’era una volta l’esecuzione personale…poi venne l’esdebitazione.

Il titolo del paragrafo richiama volutamente la celebre opera di Cesare Beccaria perché egli ha dedicato un intero capitolo alle pene per i debitori, dando origine alla moderna concezione della giurisprudenza nei loro confronti.

Ripercorrendo nel tempo le sanzioni previste per i debitori insolventi, appare evidente che nell’antichità, fatta eccezione per brevi periodi, l’insolvenza era considerata un delitto molto grave e le sanzioni si ripercuotevano con molta durezza sulla persona del debitore.

Nell’antica Grecia era previsto per il debitore insolvente un trattamento severissimo, che si riassumeva nella massima “chi non ha denaro, paghi con il corpo”. In caso d’inadempienza, il debitore era costretto al pagamento con le sevizie, con la schiavitù o con la morte. La severità indiscriminata nei confronti dei debitori si attutì solo per un breve periodo, grazie al giurista e legislatore ateniese Solone (638 – 558 a.C.), considerato dagli antichi uno dei Sette Savi. Eglielaborò una riforma che prevedeva l’abolizione della schiavitù per debiti, compresi quelli contratti in periodi antecedenti alla riforma. Di conseguenza venne liberato anche chi aveva fatto una vera e propria speculazione finanziaria. Alcuni ateniesi che erano a conoscenza dell’imminente riforma di Solone chiesero ingenti prestiti nella certezza che non avrebbero rischiato la schiavitù. Questo dimostra che in ambito creditizio i “furbetti del quartierino” non sono cambiati molto negli ultimi tre millenni.

La legislazione romana non seguì per nulla la riforma di Solone, che pertanto rimase un caso isolato nell’antichità. Infatti, le leggi delle XII tavole emanate a Roma nel 453/452 a.C., si caratterizzarono per un’estrema durezza nei confronti dei debitori insolventi, attribuendo ai creditori la piena proprietà di essi senza fare distinzione tra quelli in mala fede e quelli privi di colpa. Il creditore aveva il diritto di tradurre il debitore nella propria casa con una catena al collo, di percuoterlo con un nerbo di bue, di porlo in ceppi. L’unico obbligo era quello di dargli giornalmente un pane di farro. Trascorso il termine di trenta giorni senza che il debito fosse saldato, il creditore doveva condurre il debitore per tre volte consecutive al mercato affinché chi era interessato potesse riscattarlo. Se nessuno si presentava egli era posto in schiavitù del creditore che poteva eseguirne la vendita, oppure anche ucciderlo e smembrare il suo corpo per spartirne le membra con gli eventuali altri creditori, in proporzione al credito vantato. Soltanto nel 326 a.C, come riporta lo storico Tito Livio, una sommossa popolare provocata dal ripetersi di sevizie sui debitori insolventi (nel caso particolare, dalla sodomizzazione del debitore), portò all’emanazione della “lex Poetelia Papiria de Nexis”. La legge introduceva per la prima volta nel diritto romano il criterio distintivo tra due categorie di debitori: quelli in buona fede e quelli in mala fede. Se l’inadempienza derivava da infortunio essi erano sottratti all’esecuzione personale, se invece erano in mala fede, ne rimanevano soggetti come prima. Però anche i debitori in buona fede continuavano ad essere marchiati come “infames”, con tutte le conseguenze che ciò comportava. Rimanevano esclusi dalle cariche civili, militari e giudiziarie, e da qualunque altro ufficio; non potevano essere accusatori nei giudizi penali ed erano indegni di essere sentiti come testimoni. Non potevano neppure assistere ai pubblici spettacoli, fino a che la “lex Roscia theatralis” (67 a.C.) consentì loro di assistervi, ma a condizioni peggiori dell’esclusione. La legge prevedeva, infatti, l’obbligo per loro di sedere in un settore riservato dell’arena, affinché potessero essere riconosciuti e additati. L’Imperatore romano Adriano (che regnò dal 117 al 138 d.C.) modificò in peggio la legge “Roscia” prevedendo esplicitamente che tutto il pubblico potesse sbeffeggiarli, deriderli, insultarli e bersagliarli con ogni genere d’immondizie.

Con l’invasione dei Longobardi, al diritto romano si sostituì quello dei vincitori, che nei confronti dei debitori insolventi non era certo meno duro. L’insolvenza veniva punita oltre che con una pena pecuniaria, con il lavoro del debitore e dei suoi familiari, ma spesso anche con la riduzione in schiavitù fino all’estinzione dell’obbligazione.

L’affrancamento delle città italiane dai vincoli feudali diede origine a procedure diversificate, anche se in generale ricalcavano in gran parte le norme del diritto romano, con un orientamento molto severo nei confronti dei debitoriinsolventi. Sintetizza bene questo orientamento l’invettiva di Baldo degli Ubaldi, che intorno alla metà del XIV secolo scriveva “est decoctor, ergo fraudator” (è un fallito, pertanto è un imbroglione).

Alcuni esempi di normative vigenti nel territorio italiano in quel periodo:

-le costituzioni milanesi del 1541 punivano i falliti dolosi alla stregua dei rei di ribellione. Pena di morte o galera a vita per colui che, entro il termine di tre mesi, non avesse stipulato il concordato con i creditori;

-nello Stato Pontificio una Bolla del 1570 del Papa Pio V equiparò gli insolventi ai ladri ed ai grassatori e, come tali, li punì con pene che arrivavano a comprendere anche la morte;

-nel Regno di Napoli la legislazione bancaria (“Prammatica de nummulariis”, emanata nel 1536 e ampliata, integrata varie volte fino al 1772), prevedeva per i falliti anche la pena della morte.

Risale a quest’epoca l’usanza di spezzare, in caso di fallimento, il banco tenuto dai commercianti nella piazza della città, in segno di pubblica infamia da cui il termine di  bancarotta. A questa si aggiungeva talvolta la pena corporale della “plumbatura”, ovvero percosse inferte con una verga di piombo.

In certi Comuni i falliti, con indosso soltanto una camicia, (da qui l’origine del termine rimanere in maniche di camicia) venivano trascinati, legati alla coda di un asino, nella piazza del mercato, ove erano costretti a percuotere con le natiche nude una pietra (pietra del bando) gridando: “rinuncio ai miei beni”. Nel primo vocabolario romagnolo elaborato nel 1840 da Antonio Morri si può leggere alla voce fallimento “dar del culo in sul petrone, o in sul lastrone”. Per di più i falliti, per tutto il resto della vita, dovevano portare un particolare cappello di colore verde. Pare che il detto “essere al verde” abbia origine da questa usanza.

La prima legislazione comunale che eliminò il carcere per i debitori insolventi fu quella di Padova per merito dell’intervento diretto di Sant’Antonio. Nello statuto relativo ai debitori insolventi, datato 17 marzo 1231, si può leggere: “A richiesta del venerabile fratello Antonio, dell’Ordine dei frati Minori, fu stabilito e ordinato che nessuno sia detenuto in carcere, quando non sia reo che di uno o più debiti in denaro, del passato o del presente o del futuro, purché egli voglia cedere i suoi beni. E ciò vale sia per i debitori che per gli avallatori….”

Nonostante il lento maturare di nuovi orientamenti (come quelli del giurista ed economista Benvenuto Stracca, fondatore del diritto commerciale, che in un trattato del 1553, suddivise i debitori insolventi e relative pene in base a tre categorie: fortuiti, colposi e dolosi), nel secolo “dei Lumi”, i falliti senza colpa continuavano ancora ad essere incarcerati sia a titolo d’esecuzione civile, sia come pena vera e propria. Contro questa pratica si levò forte la voce di Cesare Beccarla. Nella sua opera “Dei delitti e delle pene”, (prima edizione stampata a Livorno nel 1764), al capitolo XXXIV dal titolo “dei debiti” si può leggere:

“Io credo importante il distinguere il fallito doloso dal fallito innocente; il primo dovrebbe esser punito coll’istessa pena che è assegnata ai falsificatori delle monete, poiché il falsificare un pezzo di metallo coniato non è maggior delitto che il falsificare le obbligazioni stesse. Ma il fallito innocente, ma colui che dopo un rigoroso esame ha provato innanzi a’ suoi giudici che o l’altrui malizia, o l’altrui disgrazia, o vicende inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle sue sostanze, perqual barbaro motivo dovrà essere gettato in una prigione…”

Ispirato da Beccaria, Cosimo Amidei nel 1770 scriveva il “Discorso filosofico-politico sopra la carcere de’ debitori”. L’opera diAmidei influì sulla riforma con cui nel 1779 il granduca Pietro Leopoldo diToscana abolì la carcerazione per debiti, prevedendola solo nel caso di dolo. Scriveva L’Amidei: “nella Toscana vi è una legge crudele sopra i falliti; se il fallito volge le spalle a’ suoi creditori, la legge presume il fallimento doloso, e come doloso, oltre le pene, che incorre il fallito, i figlioli, e descendenti maschi per linea masculina nati al tempo del fallimento, sono affetti, ed obbligati colle persone, e beni a soddisfare i debiti del padre, e dell’avo paterno, senza che li giovi unasuccessiva repudia, o astensione della eredità… Un residuo di barbarie è certamente la carcere de’ debitori, sicchè ancor questa dovrebbe esser compresa nella riforma…”

In seguito la giurisprudenza Italiana subì l’influenza del codice di commercio napoleonico del 1807, che prevedeva la distinzione tra la bancarotta fraudolenta e quella semplice. Infatti, sia il codice Albertino del 1842, sia quello emanato ad Italia unita nel 1865, riproposero questa distinzione.

(Articolo di Giuseppe Chionetti apparso su Credit Village Magazine, luglio-agosto 2009)

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